La presentazione del Piano regolatore ha
ricordato a tutti quali sono le bellezze del nostro territorio. Si va dalle
sponde della Dora, selvagge e lussureggianti, agli ettari di campi coltivati
che circondano l’abitato, le emergenze orografiche che nelle giornate terse
rappresentano pienamente l’idea di paesaggio. Tutto ciò comincia ad assumere un
ruolo almeno importante quanto lo sono stati fino a ieri il tessuto urbano e,
nella loro unicità, i monumenti e i centri storici.
Ma che cosa di tutto ciò viene considerato
patrimonio comune da salvaguardare? Quali sono le caratteristiche che cambiano,
con questo spostamento di attenzione?
Quando nasce, un piano regolatore nasce già
vecchio. A maggior ragione questo, che ha avuto avvio un decennio fa e ha
modificato almeno tre volte le linee di indirizzo generali, e quindi la visione
politica.
Lo testimoniano alcuni anacronismi nel
metodo di lavoro e nel linguaggio, forse anche perché la legge di riferimento è
una norma degli anni Settanta, periodo in cui le parole chiave erano standard e
zonizzazione, concetti di cui ancora si avverte la presenza. D’altra parte è
possibile che certe visioni possano essere abbracciate in modo convinto solo
dalle generazioni autrici e protagoniste dei processi di rinnovamento, per non
essere un semplice adattamento, magari in modo non pienamente condiviso, allo spirito dei tempi.
La novità la si presenta sotto forma di un
concetto ormai abusato, che è quello della “sostenibilità”, una parola
d’ordine, diventata presto di moda, che lancia un messaggio politically correct, che non può mancare,
talmente divenuto un tormentone, che quasi non si sa più che cosa voglia dire,
così come è successo per tutti i termini suggestivi di cui si è appropriato il
burocratese: la sinergia, l’interscambio, la “liquidità”, adesso il “2.0” .
Chissà quali saranno le nuove frontiere
delle espressioni politiche che serviranno a coprire con un essere “up to date”
di maniera un modo di fare sempre uguale. Tanto che oggi questo termine è
ripetuto come un mantra anche da soggetti insospettabili, che poi, ad esempio, di
fatto finanziano grandi opere o grandi eventi, che con il concetto di
sostenibilità non hanno nessuna riconoscibile intersezione.
Ma come si riconosce effettivamente una
scelta sostenibile?
Sostenibile parrebbe essere una città che
non consuma più suoli agricoli ma cresce su se stessa. E questo di per se è già
una conquista epocale, in
antagonismo a una visione di sviluppo che, in altri luoghi del mondo, sconta
ancora la misura del progresso cancellando per sempre territorio naturale.
Però siamo anche consapevoli che spesso le
idee di sostenibilità alla base delle politiche di trasformazione urbana non
sono poi seguite dai fatti.
Riuso, recupero, riciclaggio urbano, uso
dei suoli zero, salvaguardia del paesaggio sono tutti termini di una modernità,
che deve incontrare la fattibilità nei processi di modifica delle norme
attuali.
A che cosa quindi, e a chi serve questo
piano? Fa abbastanza per cambiare il volto di Alpignano nei prossimi dieci,
quindici anni?
Uno dei principali obiettivi che si doveva
porre non è il recepimento delle indicazioni cogenti dei piani regionale
provinciale, ma di creare una interconnessione tra le parti di città, una
rifunzionalizzazione degli spazi pubblici e il miglioramento della qualità
architettonica del centro abitato. Ci sono i margini per migliorare questo
lavoro che ha fatto una buona fotografia dell’esistente, proponendo qualche
piccola operazione di trasformazione urbana che però non ha nessuna delle caratteristiche
che stanno in premessa, ovvero di ricucitura, di riaggregazione, di mobilità
sostenibile.
Il lavoro è prettamente accademico. Sono
stati usati i colori al posto dei retini. Sono state censite le piante, gli
edifici, congelato il centro storico a un dato punto zero. Ma quello che conta davvero è capire nelle mani di questa
amministrazione che cosa diventerà questo lavoro.
Con queste premesse un piano deve essere
uno strumento capace di generare delle economie, che sono sempre state fino a
oggi la rendita fondiaria, la speculazione edilizia, gli oneri di
urbanizzazione. Tutte cose che oggi noi vediamo, con occhi nuovi, come
negative. Ma con che cosa le sostituiamo? Qualcuno sta già cominciando a capire
che il benessere di una società non è più soltanto determinata da indicatori di
ricchezza tradizionali, ma dalla qualità
della vita sociale, dalla percezione della sicurezza, dei servizi e della
cultura, dalla disponibilità di territorio naturale. Sappiamo bene quanto
tutto ciò oggi costituisca il limite di questo modello di sviluppo, e sappiamo
anche che dovremmo cambiarlo, ma non sappiamo come. I piccoli centri urbani
conservano ancora delle caratteristiche tali per cui tutti questi valori
possono essere potenzialmente recuperati.
Spetterà a chi lo eredita interpretarne le
potenzialità.
QUI prodest? Ahi ahi ahi... il latinorum colpisce sempre...
RispondiEliminano, in realtà è Gene Gnocchi che colpisce...comunque A ME MI piace così!!!
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