domenica 6 luglio 2014

QUI PRODEST?

La presentazione del Piano regolatore ha ricordato a tutti quali sono le bellezze del nostro territorio. Si va dalle sponde della Dora, selvagge e lussureggianti, agli ettari di campi coltivati che circondano l’abitato, le emergenze orografiche che nelle giornate terse rappresentano pienamente l’idea di paesaggio. Tutto ciò comincia ad assumere un ruolo almeno importante quanto lo sono stati fino a ieri il tessuto urbano e, nella loro unicità, i monumenti e i centri storici.
Ma che cosa di tutto ciò viene considerato patrimonio comune da salvaguardare? Quali sono le caratteristiche che cambiano, con questo spostamento di attenzione?
Quando nasce, un piano regolatore nasce già vecchio. A maggior ragione questo, che ha avuto avvio un decennio fa e ha modificato almeno tre volte le linee di indirizzo generali, e quindi la visione politica.
Lo testimoniano alcuni anacronismi nel metodo di lavoro e nel linguaggio, forse anche perché la legge di riferimento è una norma degli anni Settanta, periodo in cui le parole chiave erano standard e zonizzazione, concetti di cui ancora si avverte la presenza. D’altra parte è possibile che certe visioni possano essere abbracciate in modo convinto solo dalle generazioni autrici e protagoniste dei processi di rinnovamento, per non essere un semplice adattamento, magari in modo non pienamente condiviso, allo spirito dei tempi.
La novità la si presenta sotto forma di un concetto ormai abusato, che è quello della “sostenibilità”, una parola d’ordine, diventata presto di moda, che lancia un messaggio politically correct, che non può mancare, talmente divenuto un tormentone, che quasi non si sa più che cosa voglia dire, così come è successo per tutti i termini suggestivi di cui si è appropriato il burocratese: la sinergia, l’interscambio, la “liquidità”, adesso il “2.0”.
Chissà quali saranno le nuove frontiere delle espressioni politiche che serviranno a coprire con un essere “up to date” di maniera un modo di fare sempre uguale. Tanto che oggi questo termine è ripetuto come un mantra anche da soggetti insospettabili, che poi, ad esempio, di fatto finanziano grandi opere o grandi eventi, che con il concetto di sostenibilità non hanno nessuna riconoscibile intersezione.
Ma come si riconosce effettivamente una scelta sostenibile?
Sostenibile parrebbe essere una città che non consuma più suoli agricoli ma cresce su se stessa. E questo di per se è già una conquista epocale, in antagonismo a una visione di sviluppo che, in altri luoghi del mondo, sconta ancora la misura del progresso cancellando per sempre territorio naturale.
Però siamo anche consapevoli che spesso le idee di sostenibilità alla base delle politiche di trasformazione urbana non sono poi seguite dai fatti.
Riuso, recupero, riciclaggio urbano, uso dei suoli zero, salvaguardia del paesaggio sono tutti termini di una modernità, che deve incontrare la fattibilità nei processi di modifica delle norme attuali.
A che cosa quindi, e a chi serve questo piano? Fa abbastanza per cambiare il volto di Alpignano nei prossimi dieci, quindici anni?
Uno dei principali obiettivi che si doveva porre non è il recepimento delle indicazioni cogenti dei piani regionale provinciale, ma di creare una interconnessione tra le parti di città, una rifunzionalizzazione degli spazi pubblici e il miglioramento della qualità architettonica del centro abitato. Ci sono i margini per migliorare questo lavoro che ha fatto una buona fotografia dell’esistente, proponendo qualche piccola operazione di trasformazione urbana che però non ha nessuna delle caratteristiche che stanno in premessa, ovvero di ricucitura, di riaggregazione, di mobilità sostenibile.
Il lavoro è prettamente accademico. Sono stati usati i colori al posto dei retini. Sono state censite le piante, gli edifici, congelato il centro storico a un dato punto zero. Ma quello che conta davvero è capire nelle mani di questa amministrazione che cosa diventerà questo lavoro.
Con queste premesse un piano deve essere uno strumento capace di generare delle economie, che sono sempre state fino a oggi la rendita fondiaria, la speculazione edilizia, gli oneri di urbanizzazione. Tutte cose che oggi noi vediamo, con occhi nuovi, come negative. Ma con che cosa le sostituiamo? Qualcuno sta già cominciando a capire che il benessere di una società non è più soltanto determinata da indicatori di ricchezza tradizionali, ma dalla qualità della vita sociale, dalla percezione della sicurezza, dei servizi e della cultura, dalla disponibilità di territorio naturale. Sappiamo bene quanto tutto ciò oggi costituisca il limite di questo modello di sviluppo, e sappiamo anche che dovremmo cambiarlo, ma non sappiamo come. I piccoli centri urbani conservano ancora delle caratteristiche tali per cui tutti questi valori possono essere potenzialmente recuperati.


Spetterà a chi lo eredita interpretarne le potenzialità.

2 commenti:

  1. QUI prodest? Ahi ahi ahi... il latinorum colpisce sempre...

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  2. no, in realtà è Gene Gnocchi che colpisce...comunque A ME MI piace così!!!

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